La responsabilizzazione delle risorse umane come cura ai danni dell’esperienza
di Laura Liguori (**)
L’importanza dei dipendenti all’interno di una azienda
Numerosi studi affermano che i leader non contribuiscono per più del 20%, in media, al successo dell’impresa, mentre i dipendenti sono l’elemento critico per il restante 80% (1).
In particolare, se è vero che il capitale immateriale di un’impresa moderna (know-how, conoscenze, competenze, capacità di innovazione e di cambiamento) costituisce una delle prime fonti di vantaggio competitivo, l’importanza delle risorse intellettuali è facilmente provata e sottolineata da alcune semplici considerazioni:
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sono le risorse intellettuali che sviluppano gli aspetti intangibili (design, immagine aziendale, reputazione, empatia, ricordo) che costituiscono il valore di un prodotto percepito dal cliente;
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ad oggi, le imprese che utilizzano in maniera preponderante il capitale intellettuale hanno capitalizzazioni di borsa superiori al valore degli asset tangibili;
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nelle imprese, il lavoro manuale viene, sempre più frequentemente, sostituito dall’automazione, che, sia nella fase di progettazione, sia in quella del controllo, deve fare invece sempre riferimento alle risorse intellettuali.
Ecco dunque che, oggi più che mai, per far sì che un’azienda sia davvero efficiente e performante bisogna creare un patrimonio di risorse umane che apporti davvero valore all’azienda, riuscendo ad creare le basi per il vantaggio competitivo oggi fondamentale per il successo e la permanenza sul mercato.
La cultura dell’anzianità e gli svantaggi dell’esperienza
McKinsey, in collaborazione con la London School of Economics[2], ha realizzato uno studio sulla gestione del personale nelle imprese italiane e in altri paesi industrializzati. Il nostro Paese mostra un modello di gestione del personale poco meritocratico e una pratica di gestione più attenta al prodotto/servizio che allo sviluppo delle persone; questi comportamenti si traducono in una produttività più bassa del 20% rispetto a quella delle principali potenze economiche mondiali. Questo divario, peraltro, tende ad allargarsi: mentre le aziende degli altri Paesi migliorano, le nostre peggiorano.
In Italia esiste ancora una “cultura dell’anziano” difficile da estirpare: il dipendente più anziano, indipendentemente dalle sue competenze, dalla sua istruzione e soprattutto dalla sua effettiva produttività, è spesso giudicato migliore o intoccabile soltanto in riferimento alla sua esperienza. Questo taglia le gambe o comunque agisce da freno a risorse umane più giovani e meno esperte, ma magari più competenti o più flessibili ed inclini all’innovazione.
D’altro canto, spesso l’esperienza per i lavoratori anziani è essa stessa uno svantaggio, e questo per i seguenti motivi:
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sentirsi esperti fa venir meno l’esigenza e dunque la voglia di innovare, di trasformarsi, di migliorare, poiché è più comodo mantenere lo status quo, continuare a fare le cose come si sono sempre fatte, rimanendo così nella propria zona di confort. Quando si guarda tutto dal proprio, solito punto di vista si smette di percepire molte altre angolature della realtà, forse più interessanti e utili. In altre parole: non si è abituati al cambiamento, lo si respinge, e senza una adeguata capacità di adattamento si hanno anche scarse abilità nell’affrontare qualsiasi situazione difficile.[3]
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Anche le intelligenze più acute si stancano quando non sono sottoposte a stimoli permanenti: l’intelligenza è come un muscolo che ha bisogno di essere esercitato per funzionare bene, e lo stesso vale per la creatività. Basarsi troppo sulla mera esperienza significa togliere l’occasione alla creatività ed all’intelligenza di esercitarsi e di manifestarsi. Se è vero che oggi una azienda per rimanere sul mercato ha bisogno di tirare fuori dal cilindro sempre nuove risposte e nuove soluzioni, è evidente che vivere nella routine e nella mera esperienza è deleterio;
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quando ci si sente più esperti degli altri, spesso ci cerca di imporre a questi ultimi la propria visione delle cose, poiché si è convinti che quella sia l’unica prospettiva performante. In questo modo si frenano e si scoraggiano i dipendenti più giovani o più creativi, criticando, bloccando o depauperando tutte le loro iniziative creative o innovative e conducendoli verso le uniche 2 strade possibili: abbandonare l’azienda o adeguarsi allo status quo;
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la cultura occidentale, e più ancora il sistema educativo in essere, si basa sulla creazione del terrore di sbagliare, e questo imprinting basato sulla necessità obbligata di fare la cosa giusta viene traslato anche a livello personale e lavorativo. Il punto è che il terrore di sbagliare toglie alle persone la loro capacità creativa e dunque innovativa, relegandole alla più sicura esperienza. [4]
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Dalla cultura dell’”aberrare l’errore” deriva anche il non accettare che le proprie azioni possano essere sbagliate o deleterie. Quando si fanno errori o non si è adeguatamente performanti, dunque, la colpa viene vista all’esterno, imputandola alla situazione economica, al mercato o ai dipendenti più giovani e dunque più scomodi, che diventano innocenti capri espiatori.
L’esperienza come ostacolo per le risorse creative
Lorenzo Paoli, business coach di successo, ha scritto recentemente un articolo su Millionaire in cui ha sottolineato proprio questo concetto: “Per distinguersi, produrre innovazione è necessario rompere alcune regole non scritte che ci rendono mediocri e ci fanno dare tutto per scontato. Attento al “si fa così”: moltissime aziende chiudono ogni giorno perché sono vittime della regola “Abbiamo sempre fatto così, si farà sempre così”. Se ti accorgi che i tuoi comportamenti non portano frutti, rivedi questa regola, chiedendoti quali abitudini devi cambiare”.[5]
Per i lavoratori più creativi, flessibili ed innovativi, che spesso hanno bisogno di momenti di concentrazione intima per poter lavorare al meglio, operare in un team in cui c’è anche soltanto un soggetto anziano della tipologia descritta sopra è davvero dannoso, poiché la propria capacità di essere produttivi ed innovativi viene messa a dura prova dalle continue “invasioni di campo”, intromissioni e correzioni guidate dalla bandiera dello status quo degli “anziani esperti”.[6]
Uno studio della University of Virginia ha calcolato che i lavoratori della conoscenza passano il 70-80% del proprio tempo a giustificare il proprio lavoro, a spiegarlo all’interno di meeting, ad essere interrotti dagli “anziani esperti” e da altre attività deleterie. L’interazione (peraltro dannosa) toglie tempo al lavoro: per prendere una decisione è necessario aspettare il via libera di tutti o di quei pochi che ogni volta si espongono, con il risultato che chiunque (ma soprattutto gli “anziani esperti”) ha voce in capitolo anche in campi in cui non è competente.[7]
Questo perdere tempo in attività non produttive e basate sulla routine e sul mantenimento dello status quo è sempre più criticato anche dalle grandi aziende di successo contemporanee; ad esempio, in un recente comunicato[8] Air BNB ha scritto: “Le buone idee nascono dall’urgenza. Devi avere prima di tutto fame. Poi guardare quello che si muove intorno a te, infine rischiare e perseverare”.
Responsabilizzare i dipendenti per combattere l’esperienza negativa
Come è ovvio, non tutte le risorse umane con grande esperienza alle spalle sono un ostacolo per le aziende; per poter beneficiare dei soli elementi positivi dell’esperienza, un’azienda deve dunque puntare su un modello organizzativo teso a dare valore agli elementi più produttivi e ad evitare il più possibile l’atrofizzazione della creatività dei dipendenti data dalla chiusura di questi ultimi all’interno della propria zona di confort costituita dall’esperienza.
Il modello della responsabilizzazione dei dipendenti, od “empowerment”, è basato sul coinvolgimento di tutto il personale nella “tensione” verso i risultati. L’empowerment è addirittura qualcosa di più della mera responsabilizzazione, perché implica una delega completa delle decisioni non strategiche ai collaboratori, specialmente a quelli più vicini al cliente.
Il leader dovrà spostare il proprio focus sulla creazione di team che operino in un’ottica di empowerment, e dunque dovrà:
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identificare in maniera chiara le competenze necessarie per il corretto svolgimento di ogni ruolo, o per lo meno di ogni ruolo chiave, e fare in modo di inserire tali competenze, o tramite la predisposizione di corsi di formazione/aggiornamento, di affiancamento sul lavoro e di emulazione delle best practices, o tramite la sostituzione della risorsa umana interessata. E’ determinante in questo, dal punto di vista organizzativo, la creazione di ambienti e contenuti di lavoro che promuovano la crescita e lo sviluppo delle competenze personali e, dal punto di vista dell’individuo, una forte tensione all’aggiornamento e alla maturazione di nuove esperienze;
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riprogettare le mansioni in base al cambiamento del mercato, alle nuove esigenze emerse o all’attitudine personale dei dipendenti: la parola d’ordine dovrà essere “flessibilità”;
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creare un “clima organizzativo” orientato alla motivazione delle risorse umane, predisponendo incentivi economici e di status, assegnando nuove responsabilità, offrendo ambienti e strumenti più adatti al lavoro, premiando ed elogiando i modelli di lavoro positivi e performanti ed i dipendenti virtuosi; va dunque attribuita una adeguata responsabilità alle risorse umane, aumentando anche i controlli e creando un sistema di punizioni chiaro e valido per tutti, indipendentemente dal grado di esperienza. Tutto il sistema delle carriere e degli incentivi va costruito nella direzione di dare pochi e chiari messaggi su quali sono le qualità che l’organizzazione richiede e su quali sono i comportamenti e i risultati che l’organizzazione premia;
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monitorare costantemente il livello di sviluppo del capitale intellettuale, predisponendo interventi dove necessario. Alla base di ciò dovranno evidentemente esserci metodologie necessarie a sostenere i processi di cambiamento: sistemi di valutazione delle performance, sistemi di controllo dei risultati, sistemi di misurazione della produttività, sistemi informativi, ecc.
L’obiettivo finale, a livello organizzativo, sarà quello di creare un’organizzazione che veda come pilastro del proprio essere l’apprendimento, e che dunque consenta di definire un percorso di sviluppo delle conoscenze mirato ed allineato alle scelte strategiche dell’azienda.
NOTE e BIBLIOGRAFIA:
[1] Caruso, E., Responsabilizzare le persone, Tesi, 2008
[2] McKinsey&Company, Management Matters, Centre for Economic Performance, London School of Economics
[3] Gaggiani, E., 10 motivi per abbandonare la zona di confort, su lamenteemeravigliosa.it
[4] Robinson, K., Ken Robinson dice che la scuola uccide la creatività, TED Italia su youtube.com, marzo 2012
[5] Paoli, L., Nel business vincono i ribelli: ecco come diventarlo, su Millionaire.it, marzo 2016
[6] Franceschini, C., Collaborare è una noia mortale ed azzera la produttività. Uno studio, su Startupitalia.eu, marzo 2016
[7] The collaboration curse, su The Economist, gennaio 2016
[8] Millionaire, post sulla pagina facebook ufficiale del 29 marzo 2016
(*) Laura Liguori è dottoressa in Scienza dell’Amministrazione e collabora alla docenza all’Università degli Studi della Tuscia per la cattedra di Psicologia delle Organizzazioni.
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